Epilogo bonus: “Before the storm” di Roby A.
Steven: 50 anni
Victoria: 38 anni
Cleveland, Ohio
Un sabato di giugno
Victoria
L’orologio a parete segna le 12:50, la quiete regna sovrana: un evento fuori dall’ordinario giacché di solito questa casa pullula di lamentele e capricci. Sto preparando il pranzo, il menu di oggi prevede pasta all’italiana con pomodori freschi spediti direttamente dai miei genitori insieme ad altre verdure del loro orticello.
Mi asciugo il sudore dalla fronte e lego per bene i capelli con un elastico, il caldo è insopportabile e stare ai fornelli non aiuta. Certo, potrei accendere i condizionatori perfettamente installati e programmati da mio marito, ma io preferisco tenere le finestre aperte e godermi l’aria pulita. Dopo la nascita di Nicholas abbiamo comprato un appartamento più grande in periferia; eravamo stanchi del trambusto urbano, e così adesso posso dire che siamo quasi in campagna. Quasi. Impieghiamo mezz’ora d’auto per arrivare in ospedale, ma non importa: siamo tranquilli e i nostri figli sono felici. Il cibo in pentola bolle da sette minuti circa, controllo la cottura e mi accorgo che è ottima. Elimino l’acqua e condisco la pasta con i pomodorini già cotti nella padella, e in quel momento percepisco lo scatto della serratura. Piccoli passi concitati si inoltrano nel soggiorno, fino al ciglio della porta della cucina.
Il suo broncio è il primo dettaglio che registro, subito dopo le braccia incrociate al petto; la t-shirt bianca con i fiorellini le sta un pochino grande, così come i jeans, ma da qualche mese ha iniziato a pretendere che i suoi vestiti siano oversize. Dice che vanno di moda. I capelli castani e ricci sono ormai lunghi fino alle spalle, e gli occhi azzurri stretti a fessura sono uguali a quelli dell’uomo che spunta alle sue spalle.
Niente saluto, niente bacio, niente abbraccio, ma un sorrisino le spunta sul viso e capisco che quel muso lungo non è destinato alla sottoscritta.
«Ciao tesoro, come è andata? Ti sei divertita?» chiedo. Stamattina aveva una colazione di compleanno a casa della sua amichetta del cuore, era così carina mentre si acconciava i capelli con le forcine colorate.
«Benissimo, la mamma di Jinny ha preparato tanti dolcetti e biscotti squisiti. Mi ha chiesto anche se volessi restare per pranzo, ma le ho detto che dovevo assolutamente finire i compiti».
Sorrido. La scuola è quasi giunta al termine, eppure continua a studiare come fosse l’inizio dell’anno scolastico. «Bene, va’ a lavarti le mani e cambiati che tra poco pranziamo» le dico mentre condisco l’insalata con l’olio d’oliva.
«Okay» mormora. Rivolge un’occhiataccia torva all’indietro e si allontana.
Mescolo bene il tutto e divido le porzioni nei piatti, lo faccio tentando di nascondere le reazioni involontarie del mio corpo: le mie dita tremano e il battito del mio cuore è aumentato di colpo, e questo perché il suo sguardo fulminante mi sta bruciando il fianco. Lo sento addosso, anche se sono concentrata su altro; lo sento addosso come lo sentivo undici anni fa la prima volta che ci siamo incontrati.
È sempre la stessa storia, e con il passare del tempo pare che le cose non siano cambiante, e sono sicura che non cambieranno mai.
Sento il fruscio degli abiti e so che sta liberando i primi due bottoni della camicia, so che quando il suo profumo è invadente significa che si è avvicinato, e so anche – purtroppo – che quando è così silenzioso allora è sicuramente incazzato. Molto incazzato.
«Bentornato» esordisco prendendo del parmigiano dal frigorifero. «Stasera dopo il lavoro vado io a prendere Nick da Kimberly, così puoi riposare» aggiungo con tono neutrale. Il piatto mi viene tolto dalle mani con rapidità, e anche gli altri subito dopo. Steven si muove agile in cucina, apparecchia nei minimi dettagli il tavolo per un pranzo che sarà sbrigativo e semplice: tra un’ora devo essere al lavoro, eppure non perde mai occasione di dare importanza a questi momenti in cui la famiglia riesce a conciliarsi e a essere unita.
Mi poggio con un fianco al bancone, e lo osservo preparare il tutto con quel suo fare elegante che mi fa perdere la testa.
«Nessun bacio per me, oggi?» Punto gli occhi sulla sua schiena e, quando si volta, sul petto scoperto che si intravede dalla camicia. Apre il mobile e prende tre bicchieri, la brocca dell’acqua e due calici di vino per noi due. Poi inizia a tagliare il pane.
«Mia figlia è uscita da casa di Jinny con un regalo tra le mani» grugnisce. La sua voce, con gli anni, è diventata più profonda.
«Ah sì? E che genere di regalo?» chiedo inarcando un sopracciglio, anche se trattengo con gran fatica un sorriso.
Il mio marito cinquantenne – guai a chi glielo ricorda – bellissimo e sensuale smette di tagliare e mi fissa, incendiandomi con le sue onde indomite e burrascose nelle quali, però, vedo il desiderio che scalcia feroce e che a breve fallirà nell’essere celato.
«Mi prendi anche per il culo?»
«Non so di cosa tu stia parlando, sarà di una sua amica di classe» mento. «Gal, è pronto a tavola!» urlo rivolta al piano superiore.
Un “Arrivo, cinque minuti” appena udibile mi fa alzare gli occhi al cielo.
Un sospiro dopo, si scrolla le briciole dalle mani e si avvicina, posizionandosi a meno di mezzo metro da me, con le mani nelle tasche dei pantaloni blu che gli stringono i fianchi così bene. Amo quando indossa quei pantaloni, ma soprattutto amo quando poi, la sera a letto, lascia che io glieli tolga.
«Sì, anche io l’ho pensato all’inizio, ma poi ho notato che la sua mano era intrecciata a quella di un ragazzino…»
Oh, no.
«Steven…» Quando pronuncio il suo nome, gli occhi saettano sulla porzione di addome scoperta tra gli shorts e il top a bretelle. Avanza ancora.
«E anche la sua faccia sconvolta non sembrava una coincidenza. Forse non le hai ricordato che sarei andato io a prenderla alla festa».
Si avvicina.
Ancora.
«E ho scoperto, parlando con sua madre, che quel ragazzino è il suo fidanzatino…»
«Ascolta…»
In un attimo, il suo naso sfiora il mio. «Un fidanzatino di cui io non ne conoscevo l’esistenza» conclude.
Le rughe del suo viso sono accentuate dai muscoli irrigiditi, le labbra a cuore serrate e la mascella contratta, coperta da un velo di barba. Steven Howard, primario e medico eccezionale, nonché mio marito, pare sia tra quelli appartenenti alla categoria degli uomini che sono come il vino. Avete presente, no?
«Sto aspettando, Victoria» insiste.
Di solito sono la sua Vic: lo sono quando mi sveglio al mattino accoccolata al suo petto, e quando al lavoro riusciamo a trovare del tempo per stare da soli e amoreggiare negli stanzini, oppure quando facciamo l’amore, gemendolo con desiderio e amore assoluto. Ma adesso, che reincarno la moglie bugiarda e meschina che ha coperto sua figlia, mi tocca il nome per intero. Me lo merito. Non mi resta che sputare il rospo.
«Le ha lasciato un bigliettino sul banco. C’era scritto…»
«Non voglio saperlo».
«Ciao Gal, sei una principessa bellissima, mi piaci tanto» recito con le palpebre calate. Sto per scoppiare a ridere.
«Victoria» ringhia.
«Vuoi essere la mia fidanzata?»
«Ha dieci anni».
«Molto romantico, direi» osservo.
«Dieci. Fottuti. Anni».
«E allora? Non passano mica le giornate a pomiciare, Steven. Sono bambini».
Sbarra gli occhi. «Smettila di dire queste cose».
«Perché? Ti irritano?»
«Sì, parecchio».
Gli avvolgo le braccia al collo attirandolo a me; le sue mani restano impiantate nelle tasche, ma nel suo blu brilla una luce maliziosa che conosco.
«Quasi quasi sono invidiosa di mia figlia» lo provoco. «Nemmeno a me rifili queste scenate di gelosia».
«Non cambiare discorso» sibila, «e non dire cazzate. Lo sai benissimo che se qualcuno ti guarda per più di dieci secondi…»
Gli do un bacio leggero sulle labbra, e non nasconde un sussulto sorpreso.
«Adesso basta fare il papà geloso e possessivo. Dammi un bacio» bisbiglio sulla sua bocca.
«Perché tu lo sapevi?»
Lo bacio ancora, stavolta indugiando di più su quel cuore meraviglioso.
«Perché sono sempre l’ultimo a sapere le cose?» insiste incollerito.
«Perché confidarsi con un uomo adulto non è per niente semplice, specie se si tratta di tuo padre. Secondo te io discutevo con lui sulle mie cotte adolescenziali?» Lo bacio ancora.
«Non mi interessa: se mia figlia di dieci anni – ripeto dieci anni – ha il fidanzatino, io devo saperlo».
Sospiro. «Okay, adesso lo sai. Stai tranquillo, lei mi dice tutto e la situazione è sotto controllo. Fidati di me» sussurro mordendogli il mento.
Si lascia coccolare, ma non reagisce alle mie effusioni. Sbuffo e mi stacco da lui, infastidita, mentre dei piccoli passi si affrettano verso di noi. La piccola peste si è cambiata e adesso indossa una tuta con delle caramelle stampate sopra.
«Ho fame!» dichiara massaggiandosi lo stomaco.
«Vieni amore, ti stavamo aspettando». Gal mi sorride felice, e solo ora mi accorgo della novità che sfoggia con orgoglio e, di sicuro, un pizzico di ripicca. Prendiamo posto e iniziamo a mangiare, ma non passa molto tempo prima che Steven se ne accorga. La guarda di sottecchi e fissa il suo collo con molta insistenza. Eppure, con una pazienza che mi stupisce, lascia perdere e le chiede della mattinata appena trascorsa. Non smette di lanciarle frecciatine, e lei ha sempre la risposta pronta. Ha solo dieci anni, tuttavia riesce a ribattere alle provocazioni, sempre con educazione e rispetto, proprio come le abbiamo insegnato. L’amore che traspare negli occhi di Steven quando guarda sua figlia è indescrivibile, e il modo in cui Gal, nonostante sia arrabbiata, cerchi in tutti i modi di attirare la sua attenzione mi commuove. Si amano alla follia.
«Dov’è Nick?» chiede Gal addentando l’ultimo boccone di pasta.
«A casa della zia Kimberly a giocare con Harry, tornerà stasera».
Nick, il nostro secondo arrivato e principino della famiglia, ha sette anni e frequenta la stessa classe del figlio di Kim; sono molto amici e almeno due volte a settimana trascorrono il pomeriggio insieme, alternandosi tra le nostre abitazioni.
A differenza di Gal, lui è la mia copia spudorata: capelli scurissimi, pelle olivastra, ma il destino ha deciso che anche qualcun altro si intromettesse nella genetica. Le iridi verde brillante le ha ereditate da mia sorella.
«Uhm, okay» si pulisce la bocca con un tovagliolo e beve un sorso d’acqua. «Posso andare un po’ a giocare? Giuro che tra mezz’ora inizierò i compiti».
«No, non puoi. Prima il dovere e poi il piacere, Gal» si intromette Steven.
«Uffa, non è giusto!»
«Papà ha ragione, tesoro. Che ne dici se stasera quando torno ti porto un gelato?»
I suoi occhi si illuminano. «Affare fatto!» Fa per alzarsi dalla sedia, e anche se sono ligia alle regole e pretendo che mia figlia le segua, non riesco a essere severa fino in fondo, e così faccio quello che fa lei: provocare suo padre.
«E comunque, amore» proseguo e lei si volta prima di correre nella cameretta.
«Sì?»
Guardo mio marito con un sorriso, beccandomi la sua espressione interrogativa.
«Mi piace tantissimo questa nuova collana. È un ciondolo a cuore quello?»
Le sue guance si colorano di rosso. «Sì, me l’ha regalata Kyle. Bella, vero? Adesso vado a fare i compiti, ciao mami, ciao papi» e corre via.
Provo a trattenere una risata, ci provo lo giuro, ma quando osservo Steven scuotere il capo con le mani sul viso, fallisco, e rido. Rido tantissimo.
«Sei incredibile» bofonchia.
Mi alzo e vado a sedermi sulle sue gambe, lasciandomi stringere dalle sue braccia.
«Non ho resistito» ridacchio.
«Mi farete invecchiare prima del tempo» sospira sui miei capelli.
«Non so se riuscirai a starmi dietro a quel punto» bisbiglio strofinandomi su di lui.
Le sue dita mi stringono le cosce con possesso, poi mi alza il mento e mi morde il labbro inferiore.
«Non sfidarmi, Vic».
«Oh, non ce n’è bisogno» ribatto. «Tanto alla fine, a vincere sono sempre io».
«Sono sempre pronto a perdere quando si tratta di te».
Il suo sorriso smagliante da ragazzino mi fa battere il cuore all’impazzata.
Sono di nuovo la sua Vic.
E lui è la mia tempesta arrogante e prepotente.
Steven
In punta di piedi e con cautela, entro nella cameretta per accertarmi che dormano tutti. Victoria è al lavoro, e credo che ne avrà ancora per le lunghe. Da quando è la coordinatrice del reparto deve badare ogni giorno a una montagna di scartoffie, e lei odia le scartoffie. Se poi aggiungiamo tutta una serie di problematiche che le toccano risolvere, i suoi livelli di stress sono al limite. Quando due anni fa Cindy è andata in pensione, mia moglie è andata nel panico: lei era la sua spalla, il suo punto fermo e fonte di ispirazione. La stima e il bene che provano l’una per l’altra è enorme, ma Cindy ha quasi settant’anni e aveva bisogno di godersi i suoi nipoti. Nonostante la perdita di un elemento fondamentale, nonostante il suo ruolo superiore, la mia Vic non vuole rinunciare all’adrenalina di cui si nutre in sala parto, ecco perché continua a lavorare notte e giorno, in base al turno che le spetta. Restare seduta dietro a una scrivania a dettare ordini, proprio non fa per lei.
Mi avvicino al comodino per spegnere la piccola lampada, ma prima, come ogni sera, mi soffermo sulle creature che dormono beate, le ragioni della mia esistenza, le due personcine che amo di più al mondo, insieme a mia moglie. Da quando sono nati la mia vita è cambiata, sono stato travolto da una valanga di emozioni e grazie a loro mi sento un uomo appagato e soddisfatto. Certo, non è facile essere genitori, soprattutto quando hai una moglie perfetta e tu rischi ogni santo giorno di combinare disastri. È grazie a lei se sono un buon padre, alla sua fiducia e all’amore che prova per me. Non so cosa avrei fatto senza la sua presenza perché fin dall’inizio ero terrorizzato, e lo sono tutt’ora. Ho paura di non essere all’altezza, di non essere abbastanza, ho paura che un giorno i miei figli non mi siano riconoscenti. Ho paura di deluderli e di non renderli felici.
La prima tappa è il lettino con le lenzuola di Jurassic Park; mi accovaccio e do un bacio al mio piccolo ometto che russa leggermente abbracciando il suo peluche dinosauro. Nicholas è stato desiderato, atteso, e amato. Mi ha rapito il cuore fin da quando è venuto al mondo: quando l’ho tenuto tra le braccia ho pensato fosse identico a Vic, e infatti ha le sue stesse espressioni. Identiche. Non credevo di poter amare qualcuno più di Gal, mi sembrava assurdo pensarci, e invece il mio Nick è salito in pole position insieme a lei. Lui è dolcissimo, intelligente, parla poco ma è una spugna e assorbe ogni tipo di informazione. Una rarità di bambino.
La seconda tappa mi fa alzare gli occhi al cielo alla vista delle lenzuola di Frozen. Le voleva a tutti i costi e sua madre gliele ha regalate per il compleanno. È la mia principessa, colei che ha dato vita alla mia paternità e che mi ha fatto dannare dal primo istante. Le accarezzo i capelli uguali ai miei, e osservo il suo viso angelico: la bocca a cuore schiusa, la pelle liscia e rosea, le sopracciglia allineate. Mia figlia è un incanto, è ovvio che abbia già il fidanzatino.
Ma da una moglie così perfetta, che potevo aspettarmi?
La stringo con delicatezza, fino a che la mia guancia non tocca la sua, e le parlo all’orecchio con voce bassissima. «Mi dispiace se ti faccio arrabbiare» sussurro. «Mi rendo conto che stai crescendo così in fretta e ho paura di perderti». La bacio la fronte e le accarezzo il naso con le dita. «So di essere un papà rompiscatole, so di essere troppo severo e rigido, ma lo faccio perché darei la vita per voi, e voglio darvi il meglio finché ci sarò». La riempio di piccoli baci sul viso, fino a che si muove nel sonno e si gira verso il mio lato. Farfuglia qualcosa, forse sta sognando, però la sua mano si posa sul mio braccio, e io mi sento… vivo. «Spero che tu possa essere fiera di me, Gal. Spero di essere il papà che meriti».
«Lo è, ti adora moltissimo».
Sorrido, concentrandomi su mia figlia. Quella voce potrebbe essere la mia coscienza, invece appartiene all’unica persona che riesce a capirmi fino in fondo.
«Da quanto sei lì?» sussurro.
«Abbastanza da confermare quanto ti amo».
Un tamburo martella il mio petto al suono di quelle parole. Do un’ultima carezza a entrambi, spengo la luce e poi raggiungo la donna della mia vita che, a braccia incrociate e con la schiena sul ciglio della porta, mi sfinisce con quel deserto avvolgente e caldo. Il mio rifugio e la mia condanna.
Chiudo la porta alle mie spalle, e come oggi pomeriggio mi ritrovo il collo accerchiato dalle sue braccia. Indossa gli stessi abiti di oggi, c’è un sacco di pelle scoperta e non vedo l’ora di poterla assaggiare tutta.
«Quando la finirai?» chiede.
«Di essere geloso?»
«Di dubitare di te stesso».
Sospiro, e poggio la fronte contro la sua. Lei si allontana, lasciandomi interdetto, e la seguo verso la nostra camera da letto. Ha la mia età di quando ci siamo scontrati con le nostre auto a Cleveland, ed è sempre una meraviglia per i miei occhi.
Mi trascina sul nostro letto, ci stendiamo vicini, ma lei indietreggia mettendo distanza. La cosa mi turba, tuttavia lascio perdere.
Mi accarezza la barba, ci gioca con le dita, e poi fa lo stesso con i miei capelli. Tutta la tensione della giornata va’ via solo grazie al suo tocco.
«Devi smetterla di sottovalutarti. Non credere che per me sia semplice fare il genitore, spesso mi sento inadeguata, poco materna, fredda, e poi mi rimprovero perché sono troppo permissiva e buona».
«E come fai ad andare avanti? Come fai a pensare che lo stai facendo nel modo giusto?»
Si avvicina di poco, sfiorandomi a stento le labbra.
«Guardo te».
«Me?»
«Sì, te. Ti guardo e penso che sono fortunata ad avere un uomo al mio fianco che mi supporta e mi stima. Sono fortunata a essere sposata con una persona fantastica, intelligente, che sa educare i suoi figli e, allo stesso tempo, li vizia perché non sa resistergli».
Ridiamo insieme, poi torna seria.
«Ti guardo e penso che se non avessi te probabilmente non ce la farei perché sì, sono forte, ma con te mi sento una donna migliore, e insieme abbattiamo ogni paura e siamo una squadra vincente».
Il mio petto sta esplodendo dall’emozione; le sue parole sono catartiche, mi liberano da ogni ossessione e paura. Mi liberano dal mio nemico: me stesso, e le mie insicurezze.
Le prendo la mano e le bacio le dita, una a una. «Sono passati più di dieci anni, eppure mi sento innamorato perso come le prime volte. Mi hai fatto un incantesimo, e ti prego. Non spezzarlo mai».
«Non lo farò» conferma con il suo sorrisetto impertinente. «Anche se non perderò occasione di coalizzarmi con tua figlia per fartela pagare».
Piccola stronzetta. La afferro per i fianchi e la faccio girare di schiena, mi piazzo su di lei schiacciandola con tutto il mio corpo.
«Che stai facendo?»
«Eri troppo lontana. Voglio sentirti». Occhi negli occhi. Deserto e tempesta. Amore e conflitto. Vita. Speranza.
«Oggi sei stato bravissimo a starmi lontano, puoi farlo anche adesso».
«Cosa stai blaterando?»
«Non mi hai baciata» borbotta con un broncio che le mordo all’istante. «Sei stato uno… Ahi!»
«Sono sempre stato bravo a trattenermi».
«Non quando eri più giovane».
«Cos’hai detto?»
Le blocco i polsi sul materasso, e inizio a tormentarle il collo di baci. Questo top bianco le fa risaltare la pelle olivastra, mi fa diventare matto.
«Ripeti se hai il coraggio».
«No» protesta, strusciandosi sul cavallo dei miei pantaloni.
«Ripetilo, Victoria». La punta del mio naso si posa sul petto, poi sulla clavicola e risalgo fino al lobo dell’orecchio che prendo tra i denti e succhio con ardore.
«Steven…»
«Ecco, proprio così».
«Cosa?»
«Ogni sera quando i bimbi saranno a letto e tu sarai finalmente tutta mia, è così che il mio nome uscirà da queste labbra, e magari rammenterai quanto ti voglio, quanto sono pazzo di te, quanto vederti con i nostri figli mi faccia desiderare di non essere sposato, perché così potrei chiedertelo ogni fottuto giorno».
Victoria si sporge e mi bacia, famelica e dolce, invitante e aggressiva, rovente e graffiante come la sabbia. E io, come ogni volta, mi lascio travolgere da lei, e con le mie onde la accolgo tra le braccia, nel mio cuore.
Nella mia anima.
Per sempre.